Milorad Pavić

Pubblicato: novembre 6, 2012 in Persi/Dimenticati/Nascosti

Portavano le punte dei baffi intrecciate come fruste. Non ridevano da generazioni e le rughe segnavano gli anni sulla parte superiore dei loro visi. Invecchiavano per i pensieri, non per la gioia. Sapevano che gli ebrei li chiamavano edomei; loro stessi si chiamavano sale. Occorre molto tempo per consumare una manciata di sale, pensavano, ed erano pazienti. I loro simboli erano due: il segno dell’agnello e quello del pesce. All’agnello davano i dolci impastati con le lacrime, e al pesce l’anello fatto con con la farina, perché esso è la sposa dell’anima. Dovette passare molto tempo – quattro o cinque generazioni – prima che uno di loro dicesse: “Preferisco l’albero che parla; è l’unico che produce due frutti e in esso si può distinguere il silenzio del tacere. Perché l’uomo con il cuore pieno di tacere e l’uomo con il cuore pieno di silenzio non possono assomigliarsi…”.

Paesaggio dipinto con il té

Trad. Branka Nicija

Garzanti, 1991

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Un genio, un genio della letteratura. Basterebbe questo, e sarebbe d’avanzo. Un genio in grado di costruire grandi meccanismi letterari – di bellezza sorprendente – i cui nodi interni ricordano le connessioni e i link propri del mondo del linguaggio dei pc: eppure i suoi libri sono tutti nati negli anni ’80, quando era sconosciuta la possibilità di una lettura non lineare. Infatti, i suoi libri si possono leggere dall’inizio, ma anche dalla fine, o a partire dalla metà, senza mai perdere senso. Il suo Dizionario dei Chazari è stato tradotto in 80 lingue, ed è l’unico al mondo ad avere una versione maschile e una femminile, o ad avere un finale a cui si giunge seguendo gli indizi del cruciverba. Ma sarebbe limitativo confinare la sua opera alla forma, seppur vertiginosa. L’opera di Milorad Pavić è Opera.

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Elogio di una Nutria della Martesana

Pubblicato: novembre 4, 2012 in Racconti

Sul pelo dell’acqua Martesana nuoti, tu pelosa nutria, e io ti rimiro e nutro per te stima sincera, che stai nell’acqua fresca e vibri i baffi sensibili, e vivi nella inconsapevole beata consapevolezza della nutria.

Nulla ti disturba: la fitta famiglia di anatre che sfida la corrente, i pedoni lungo la strada, i pesci limicoli che sfrottano poco avanti le tue zampe motorino sommerso. Ignori la femmina umana velata che conduce il figlio a scuola, le biciclette, il ragazzo con i pattini a rotelle.

Nutria, io t’apprezzo, e la tua vita nutrica somiglio alla pace originaria. Il tuo comodo pellicciotto, i movimenti acquatici che fai snelli, la tua quieta attività mattutina.
Nobile fra gli animali – che solo l’ignoranza crassa della Chiesa dice essere senz’anima, quando si sa che avete l’anima animale – ti auguro ogni bene!

Milano dal decimo piano di un grattacielo: è il primo sguardo restituito da Alberto Savinio del capoluogo meneghino in Ascolto il tuo cuore, città. È l’inizio di una prolungata flanerie, che è insieme percorso fisico nel corpo della città ma anche un viaggio nel deposito immenso di ricordi, nozioni, storie, avvenimenti che costituiscono la “memoria” dell’autore.

Memoria è per Savinio un deposito inesauribile, che poggia le sue basi e trae nutrimento dal “passato”. Non è dunque solo una memoria individuale, ma qualcosa che si potrebbe dire memoria collettiva: i pensieri degli altri uomini, l’eredità che viene dalla storia dell’umanità. Ricordi personali e altrui si fondono in un Museo traboccante di immagini.
Per Savinio, la realtà in costante movimento della città può essere raccontata solo attingendo a quel patrimonio di immagini che viene dal passato. La realtà osservata viene ricomposta grazie a un nuovo ordine garantito dalla Memoria. Savinio ricorda, tra l’altro, che l’arte stessa è figlia di Mnemosine. È questo il processo che consente di scoprire la realtà che è nascosta dietro la realtà, in un invito a imparare a vedere, a scovare ed esprimere la voce remota delle cose. Il doppio aspetto che esse possiedono.
La convivenza tra memoria individuale e memoria letteraria spinge Savinio in continue divagazioni, digressioni, narrazioni di storie. Tutto emerge e si fonde in misura dell’esplorare la città, nel corso di visite, percorsi casuali, passeggiate, esplorazioni, nel corso dei quali, contemporaneamente, la scoperta del tessuto urbano e del suo contenuto diventa esplorazione profonda della psiche. In una di queste esplorazioni Savinio poggia il suo taccuino sul muretto di una cancellata e si appresta a prendere delle note, quando scopre di essere avvicinato da alcuni gatti, evidentemente attratti dal suo taccuino.

Le vie di Milano sono particolarmente atte al conversare, scrive Savinio. Questa loro qualità è da ascrivere soprattutto alla loro ottima pavimentazione: la prima selciatura risale al 1265 e fu opera del podestà Napo Torriani. Da allora, e Stendhal poté confermarlo, Milano godè sempre fama di “ben selciata”. Via Manzoni, però, è la meno adatta per il fragore dei tram, che penetra nel corpo non attraverso le orecchie ma attraverso lo stomaco. La memoria di Verdi e della sua morte aleggia nell’albergo all’incrocio tra via Manzoni e via Croce Rossa. La storia traborda dal Castello Sforzesco e dal Parco di Milano alle sue spalle, da Piazza Belgioioso con la casa di Alessandro Manzoni, dal “fabbricone di aspetto assirobabilonese, che i milanesi chiamano Acquario”, e dal Museo di Storia Naturale a Porta Venezia. Le piazze, invece, “non hanno nulla di apprestato: sono incontri casuali di vie nelle quali il vento della fantasia si raccoglie e gioca, perché in questa città tranquilla e felice altro vento non tira, se non quello della fantasia sottile e pacata”. La piazza dove sorge la Chiesa di San Sepolcro è il luogo da cui partirono i milanesi per la prima crociata e in cui Mussolini fondò il primo Fascio di Combattimento. Il centro storico, il quadrilatero che corre parallelo a via Torino sono meta delle sue flanerie: Via Valpetrosa, via Cardinale Federico, Piazza della Rosa. Strade, taverne, ristoranti, specialità culinarie, tutto rimanda ad altro, crea assonanze, rievoca, collega. La Pinacoteca di Brera, l’ingresso di un palazzo patrizio, Corso Buenos Aires, riportano alla mente di Savinio qualcos’altro: la sua prima mostra di pittura a Parigi nel 1927 e la prefazione di Jean Cocteau, i racconti di Edgar Allan Poe, l’Uomo invisibile di Wells, i romanzi di Kafka.

Tutto concorre a creare un’idea di Milano, un’impressione in profondità, aiuta a catturare la sua aura. Non ultimo il fatto che la città “riposa sull’acqua, e questa è una delle principali ragioni della sua perenne freschezza. L’acqua scende dalle Prealpi, s’avvia per misteriosi fiumi sotterranei, cede alla pendenza della vallepadana, passa a sei metri sotto le case di Milano, continua e va a ingrossare il Po”.

L’intero libro si snoda come una sorta di conversazione passeggiata, s’inabissa nelle pieghe della metropoli, “città tutta pietra in apparenza e dura”, ma in fondo “morbida di giardini”, e greca molto più di tante altre città italiane, si impossessa dei suoi segreti olfattivi, dell’odore di legno bruciato esalato dai camini, scopre il fascino della nebbia, e l’orgoglio con cui i milanesi ne parlano. E diventa qualcos’altro: una lunga prolusione il cui senso profondo è una ricerca di sé.

Il capitano Hodgson apre il grande portello in colloide della navicella, dal quale scorgo Londra illuminata sfarzosamente fuggire verso oriente mentre la brezza s’impadronisce di noi. La prima delle basse nubi invernali intercetta il panorama ben noto e oscura il Middlesex. Giunti al suo margine meridionale distinguo la luce di un postale che ara la bianca distesa. Brilla per un istante come una stella prima di abbattersi in direzione delle torri di Highgate.

– Il postale di Bombay – dice il capitano Hodgson, e guarda il suo orologio – Ha quaranta minuti di ritaro.
– A che altezza siamo? – chiedo.
– A qauttromila piedi. Volete venire sul ponte?
Il ponte offre una vista delle gambe del capitano Hodgson, in piedi sul palco di comando che traversa di sghembo la nave sopra le nostre teste. Il colloide di prua non è ricoperto, e il capitano Purnall, con una mano sulla ruota, cerca di obliquare con arte. Il quadrante segna 4300 piedi.

(…)

Un fanale per la nebbia rompe la nube un cento braccia sotto di noi. Il postale della notte di Anversa lancia il suo segnale ed emerge fra due nubi in corsa a babordo, coi fianchi rosso-sague, nello splendore del doppio faro di Sheerness. Fra mezz’ora il vento ci renderà al di là del Mar del Nord, ma il capitano Purnall lascia che la nave vda come voglia, facendo il giro di tutto il quadrante mentre s’innalza.

Rudyard Kipling, Con il postale della notte. Una storia del 2000 dopo Cristo.

Bruno Traven

Pubblicato: ottobre 8, 2012 in Persi/Dimenticati/Nascosti

Voglio riportare qui alcune “puntate” di una mia rubrica pubblicata su Satisfiction.me. E’ dedicata a scrittori scomparsi, dimenticati, nascosti, sfuggiti. Inizio con Bruno Traven

 

Io invece sono ancora a Recuvrance. Mi hanno raccontato che a pochi passi dal monolocale che divido col mio amico Sebastien – 20 metri quadrati e affitto a carico del sussidio RMI – soggiornò un tempo il famoso anarchico Machno. Machno aveva vissuto per un paio di anni in sella al suo cavallo, tenendo l’Ucraina libera da ogni forma di autorità dal ’18 al ’19, con un esercito popolare di migliaia di cavalieri nomadi e rivoluzionari. Poi le cose si misero male, e dovette fuggire attraverso i Balcani, pieno di ferite. Ricucito, arrivò a Parigi. Qui sopravviveva con un lavoraccio in fabbrica e svariati litri di vino al giorno.

La nave morta
(Traduzione: T. Pintacuda)
Il libro è stato pubblicato da Baldini Castoldi Dalai

 

Non si sa con certezza quando sia nato (forse e Chicago nel 1890, o nel 1882 a Schiwiebus), ma è dato per sicuro che sia morto il 26 marzo 1969. Si chiamava Bruno Traven, ma anche Ret Marut, forse Berick Traven Torsvan era il suo nome vero. Ma si chiamava forse Otto Frege, ma anche Otto Wienecke, e forse era figlio del kaiser Guglielmo II. Di fatto, nascose sempre la sua identità cambiando spesso nazionalità e lavoro. Nel 1919, con la proclamazione della Repubblica di Baviera entra nel Consiglio Centrale del Soviet, ma alla caduta viene condannato a morte e scompare. Fa il marinaio, viaggia, poi giunge in Messico. Il suo Il tesoro della Sierra Madre (1927) divenne un film diretto da John Huston. Si dice che la sua traduttrice in spagnolo fosse B. Traven stesso. Quasi per certo si sa che negli anni ’60 abitò in Chiapas. Non aveva né casa né soldi da parte, i vestiti sì, quelli indispensabili.

 

 

Comincio a riportare qui gli articoli pubblicati su Sul Romanzo, dedicati al rapporto tra letteratura, spazio metropolitano e camminare.

La terra,
sotto i miei piedi,
non è altro che un immenso
giornale spiegato.
A volte passa una fotografia,
è una curiosità qualunque
e dai fiori nasce uniformemente
il profumo,
il buon profumo
dell’inchiostro di stampa
(André Breton, Poisson soluble, 1924)

Parlare di letteratura in riferimento all’atto del camminare, indagare le connessioni che hanno legato e legano il movimento del corpo nello spazio alla scrittura, non può prescindere da una seppur breve analisi della “storia del camminare”.
Più o meno fino alla Rivoluzione Industriale camminare rimane azione legata quasi esclusivamente dalla dimensione della necessità: si compiono lunghi tragitti a piedi, a volte viaggi veri e propri, ci si sposta ogni giorno per andare al lavoro. A un progressivo cambiamento del rapporto tra uomo e camminare si assiste, dunque, in seguito alle profonde trasformazioni a cui l’economia, la società e, soprattutto, le città saranno sottoposte in seguito alla crescita tecnologica ed economica. La crescente disponibilità di risorse, la diffusione di mezzi di trasporto meccanici e l’espansione rapidissima dei tessuti urbani sono gli elementi che rivoluzionano tale rapporto, lo ridisegnano ponendolo al centro dell’attenzione.

Non a caso, proprio in una città che, a causa della sua crescita vertiginosa, ha raggiunto un elevato grado di complessità e di “estraneità” per il suo abitante nasce la figura del flâneur, il modello per eccellenza di “esploratore” del labirinto urbano, che si affida al camminare per percorrere la città abbandonandosi senza controllo alla complessità della rete stradale, un’inesplorata foresta ai cui alberi si sono sostituiti palazzi, monumenti, edifici pubblici, in cui scorre un elemento ancora nuovo: la folla.
In questo nuovo ambiente si muove Charles Baudelaire di cui Walter Benjamin scrive:

Nessuno si è mai sentito tanto poco a casa propria a Parigi quanto Baudelaire(*).

Si può dire che lo Spleen di Baudelaire rappresenti lo spartiacque a partire dal quale letteratura e poesia hanno incominciato a interrogarsi sul rapporto tra individuo (una volta per sempre cittadino) e spazio urbano. Le coordinate all’interno del quale l’individuo è inserito sono profondamente cambiate, com’è cambiato lo stesso paesaggio, e con essi percezioni, abitudini, necessità, paure. Nei versi di Baudelaire prende forma una “grande città che non conosce alcun vero crepuscolo della sera: l’illuminazione artificiale gli sottrae il suo lento trapassare nella notte”(**). Una città trasformata agli occhi del poeta dalla produzione di massa, che si estende in nuovi smisurati quartieri, sempre più inafferrabile, caotica, fuori misura.
Ma Baudelaire, con la sua opera poetica che è anche nuovo manifesto del vivere lo spazio urbano, in questo caso rappresenta una premessa a ciò che sarà dopo.

Siamo sempre a Parigi, il 24 aprile del 1921. I dadaisti Jean Crotti, Georges D’Esparbès, André Breton, Georges Rigaud, Paul Èluard, Georges Ribemont Dessaignes, Benjamin Péret, Théodore Fraenkel, Luois Aragon, Tristan Tzara e Philippe Soupault si danno appuntamento alla chiesa di Saint Julien le Pauvre per la prima escursione nella città “banale”, ordinaria. L’esplorazione di alcuni luoghi cittadini per Dada costituisce la possibilità di riconnettere arte e vita, spazio e creazione letteraria in un’unica azione. In questo senso è fatta salva l’eredità originaria del flâneur e della flânerie, che in questo modo assurge a operazione estetica, “trasformando” lo spazio urbano in qualcosa da rielaborare ospitando letture, azioni improvvisate, coinvolgimento dei passanti, distribuzione di doni e di racconti. Dada legge lo spazio urbano, e il a”banale” contenuto in esso, come luogo della freudiana ricerca dell’inconscio cittadino.

Nel 1924, ancora a Parigi, Breton, Vitrac, Morise e Argon organizzano una Deambulazione in aperta campagna. Partono in treno e raggiungono Blois, poi si incamminano a piedi fino a Romorantin. Breton racconterà questa deambulazione negli Entretiens, descrivendola come occasione di prolungate conversazioni in assenza di ogni scopo concreto che farà emergere dinamiche sconosciute nel gruppo di camminatori, sollecitando “l’esplorazione ai confini tra la vita cosciente e la vita di sogno”. Al ritorno dalla deambulazione, Breton scriverà l’introduzione di Poisson Soluble, che diventerà in seguito il Manifesto del Surrealismo.

Con le azioni dei dadaisti prima e dei surrealisti poi, è nato un nuovo modo di stare nel nuovo spazio urbano. Da questo punto in poi la scrittura in relazione ai luoghi della città occuperà una posizione “critica”, non potrà fare a meno di porsi degli interrogativi, mettendo sotto esame la città, i suoi abitanti nell’abitarla e nell’attraversarla. Come si vedrà in seguito, in molti casi saranno gli scrittori, in anticipo o parallelamente agli studiosi, a porsi il problema di questo rapporto, avvicinando sempre più lo scrivere al movimento nella dimensione urbana.

(*)Walter Benamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, pag. 364
(**)Ibid, pag. 374

Bibliografia
Charles Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, Feltrinelli
Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi
André Breton, Manifesti del Surrealismo, Einaudi

 

Libri a piedi a Radio Popolare

Pubblicato: settembre 25, 2012 in Uncategorized

E’ nata oggi, ospite della trasmissione Babel di Radio Popolare – condotta da Barbara Sorrentini – la mia rubrica “Libri a piedi”, in cui ogni martedì, alle 10.45, parlerò di libri da leggere e, anche, di come leggerli.

I primi due libri consigliati:

Dragan Velikic, Il muro del Nord, Zandonai

Istruzioni per l’uso: evitare di leggere in movimento, a bordo di metropolitana, autobus, tram. Associare alla luminosità diminuita dell’autunno o dell’inverno.

Filippo Tuena, Stranieri alla terra, Nutrimenti

Istruzioni per l’uso: associare al ritmo della metropolitana, con sottofondo di rumori meccanici e porte automatiche.

Ora

Pubblicato: settembre 24, 2012 in Uncategorized

Riprendo a camminare in un blog.